Pont-Art, Piazza del Duomo, Milano, Carlo Bertelli, 1982

Nel 1916, con La città che sale, Boccioni ha lanciato un avvertimento: attenzione! la città sale. Cioè non sta ferma, non è quella delle vedute fotografiche, dei luoghi prescelti per il ricordo e l’organizzazione mnemonica. Il movimento della città non è soltanto in chi la attraversa, ma nei suoi stessi muri fasciati da impalcature.
Ignazio Moncada ha guardato alla stessa città, Milano, come al luogo dell’instabilità. Il ponteggio non come un fatto che si riassorbe nel costruito, ma come un continuo rifacimento e rinnovo. Forse l’ha spinto verso questa intuizione il suo modo di vedere il proprio lavoro come un’«archeologia».   «Archeologie» si sono chiamate per lungo tempo le sue composizioni fatte di strati successivi e trasparenti di impronte, di sagome e di colori, dove la sovrapposizione presenta il costituirsi dell’immagine come un processo stratificato, il cui arresto è arbitrario. Appunto perché noi costituiamo l’archeologia di domani.
Da questa coscienza del tempo, al recupero dell’antica intuizione futurista e bergsoniana del tempo come costituente dell’immagine. Non so che cosa Ignazio Moncada appenderà ai ponteggi che lo affascinano tanto e che, beninteso, non vuole nascondere. Nelle sue ultime opere, infatti, ci ha proposto una maglia geometrica, rotta a tratti da un colore come corroso e perduto dal tempo, e cioè in un gioco dove forma e colore si inseguono e si perdono a vicenda. Un taglio obliquo rende la trama frammento di un disegno senza fine, come lo strappo da un insieme perduto ma ricomponibile. Immagino che cosa potranno dire nel panorama mutevole della città i brani di un mondo regolare apposti agli intervalli modulari dei tralicci, se con la loro pretesa di ordine e di topicità (fanno pensare a grandi litostrati, pavimenti di marmo d’una civiltà perduta) non introdurranno l’utopicità.

Pont-Art, Piazza del Duomo, Milano
di Carlo Bertelli, 1982

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