Moncada: l’arte e la città, Pierre Restany, 1981

Quando si tratta di arte in rapporto alla città, generalmente il discorso viene impostato a livello di una falsa osmosi culturale, cioè un monumento, una scultura e in via di massima un tentativo di urbanistica. Con Moncada si tratta invece di un’interazione strutturale al livello del lavoro in città. Noi pensiamo generalmente ai lavori in corso come a un pacco di cristal, al cantiere, a una sorta di bloccaggio legato all’idea di una specie di pacchetto che blocca appunto la comunicazione fra il lavoratore e l’uomo della strada, come se fossero due cose diverse, e come se ci fosse una specie di traffico a senso unico: il traffico del lavoro, da una parte, e dall’altra quello cosiddetto libero.
Il rapporto arte e città nel senso di Moncada è totalmente diverso. Il cantiere perde la sua natura vergognosa, mortificante, e diventa una specie di grande schermo, di grande sceneggiatura di immagini e di linguaggio visivo, come se il lavoro venisse nobilitato dal linguaggio artistico stesso.
Raramente l’artista e il lavoratore hanno avuto la possibilità di questo tipo di coesistenza.
Il fatto di dipingere dei grandi telai anonimi e di dare a queste superfici visive la dignità di un linguaggio culturale e umano è un grande passo in avanti a livello della comunicazione visiva in città.
Generalmente i lavori in corso sono considerati dal cittadino come l’elemento penoso, come un elemento di sopportazione per la crescita della città, per la sua vita organica. Vediamo i lavori in corso di una città un po’ come vediamo i nostri amici ammalati o come i moribondi in India. Ora, invece, questo polso operativo del cuore cittadino viene rinsaldato con un discorso nuovo, un discorso d’arte. Si può dipingere dappertutto e si può dipingere a proposito di tutto: ma il problema non risiede nel carattere estroso della scelta del supporto.
Il problema di Moncada è, infatti, di rendere bella una cosa che, attraverso un certo circuito di complicità morali, etiche e socioetiche, abbiamo deciso di ignorare o di considerare una parentesi nello studio delle arti visive. Moncada intende scindere questa ambiguità e dipingere proprio queste venature di un cantiere: si tratta quindi di prendere un impegno morale fondamentale. Rendere belli i momenti stravaganti di una città, che sono d’altronde i momenti più vivi, vuol dire assumere un gesto di portata civile. L’estremo gesto di civiltà di Moncada forse non sarà evidente per tutti, perché abbiamo anche una contaminazione visiva dovuta all’abuso del linguaggio della pubblicità. Però è proprio lì, a livello della sensibilità cittadina, che si gioca la posta in gara. La pubblicità, anche quando tenta di adoperare linguaggi pittorici d’avanguardia, o cosiddetti astratti, svolge una funzione di discorso preordinato e prepotente. L’operato di Moncada non è prepotente. E non lo è perché fa dei quadri: anche se lavora in un cantiere, continua a fare quadri. Il Moncada che dipinge il cantiere di piazza Duomo è lo stesso Moncada che lavora nel suo studio: non è dunque cambiata la sua personalità.
La preoccupazione principale del Moncada pittore è stata non tanto di introdurre in questo spazio il discorso cittadino sociopolitico, ma di creare una specie di apertura al suo proprio linguaggio pittorico, di creare veramente delle opere d’arte fisicamente aperte al pubblico, aperte alla sua coscienza poetica: in poche parole, una dimensione di libertà operativa e semantica per la propria produzione poetica. E credo che questi elementi di liberazione tecnica ed organica del linguaggio pittorico siano la cosa più importante di questo tipo di avventura. Perché si tratta di avventura il cui valore è nel fatto che viene risentita e concepita a livello dell’organicità poetica del pittore stesso, come un fatto di coscienza pittorica.
Liberare il linguaggio artistico è stata la tentazione del nostro secolo, che ha vissuto così l’altra faccia dell’arte: il filone rosso della deviazione che giochiamo, l’altra parte dell’arte, l’arte che non è più arte generica, ma arte che diventa un gesto morale. Il gesto di Moncada ha un doppio valore di moralità sociale e di moralità tecnica, cioè di una apertura tecnica attraverso il linguaggio della pittura.
Sono pochi gli artisti capaci di assumere questo tipo di apertura e credo che in questo senso l’apertura di Moncada deve essere valutata come atto superiore di coscienza tecnica.
Non è vero che Moncada abbia voluto farsi pubblicità, come si dice, attraverso questo circuito visivo spettacolare. La cosa più importante è proprio la dimostrazione che lui è stato capace di darci un’apertura tecnica di linguaggio, un’esplosione, una liberazione, una dimensione di profonda umanità attraverso il proprio linguaggio.
Moncada si è comportato da uomo cosciente, da pittore veramente innamorato, non tanto della propria pittura, ma del fenomeno pittorico. L’immagine che Moncada ha dato è diventata sociale, è diventata comune, è diventata una specie di « res publica».
E questo vale, anche se sono sicuro che il gesto di Moncada sarà esemplare non soltanto per noi ma anche per lui.

Moncada: l’arte e la città
di Pierre Restany
Milano, novembre 1981

Chiudi il menu